Musei e videogiochi. Due termini apparentemente diversi fra loro, ma sempre più spesso associati sia in letteratura che nel dibattito pubblico. Questi motivi possono essere ricondotti a due questioni principali: l’ingresso dei videogiohi nei musei come oggetti che in qualche modo possono essere definiti degni di essere preservati e l’utilizzo che questi ne fanno per finalità educative o di marketing. Appare però complesso associare queste due entità: da un lato il museo non è altro che “un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto” (ICOM 2007), dall’altro invece il videogioco è votato all’intrattenimento e al profitto, ma negli ultimi anni il gaming è stato anche considerato sul versante dell’eduntainment.
Prendendo in analisi i cinque principali compiti del museo che emergono dalla definizione ICOM (International council of Museum), si possono individuare: la ricerca, l’acquisizione, la conservazione, la comunicazione e l’esposizione. Andandoli a considerare in rapporto con il videogame ci si può rende conto di come nel tempo gli obiettivi del museo siano cambiati: se in un primo momento esso era considerato come un luogo di conservazione di oggetti d’arte o reperti, negli ultimi decenni si è distinto, rispetto alle altre istituzioni culturali per una maggiore apertura verso il pubblico e per il tentativo di proporre esperienze coinvolgenti. Proprio la comunicazione e l’esposizione sembrano essere le parole d’ordine per questa nuova era. Comunicare non è altro che per il museo il diffondere la conoscenza del proprio patrimonio utilizzando canali di comunicazione diversi; esporre invece sta a significare il consentire ai visitatori di fruire delle opere esposte. Si può dire quindi che un museo può adempiere ai propri compiti solo se segue la sua mission: la conservazione, la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale. Per questo motivo, non può più ridursi alla semplice conservazione ed esposizione, ma deve comprendere l’avvicinamento al patrimonio e la sua trasmissione in termini di contenuti e di conoscenze toccando un pubblico più vasto. A questo proposito la definizione ICOM di museo può essere letta in un’ottica utente-centrica e in una prospettiva strettamente museologica: se i servizi che mette a disposizione il museo sono relativi all’acquisizione, conservazione, ricerca, esposizione e comunicazione di varie testimonianze, questo comporta che anche il museo deve essere attento a tutti i momenti in cui esso entra in contatto con gli utenti che lo visitano e ad ogni attività che possa contribuire alla loro soddisfazione e alla loro conoscenza.
Ritornando al rapporto che si cerca di instaurare tra queste due entità, bisogna dire che i musei e i videogiochi condividono degli aspetti comuni. Il primo è sicuramente di natura progettuale, perchè alla base di entrambi è presente la necessità di costruire e organizzare spazi percorribili in cui allestire un racconto (non solo di storytelling, ma di progettazione, allestimento e level design). Un secondo aspetto è dato dall’attività che è presente nella natura del videogame, ovvero quella “collezionistica” e viene ad indicare un’attività opzionale del giocatore nel mondo del game che consiste nel collezionare oggetti, risorse e luoghi. Infine, sia il museo che il videogioco condivono una dimensione sociale dell’esperienza, che per il museo appare scontata, mentre per il gaming è frutto di un dibattito partito da una percezione del medium come antisociale e che è stata messa in discussione dalla nascita dei videogiochi multiplayer online e dalla creazione di altre forme di intrattenimento, come quella di vedere giocare altri giocatori. A questo proposito risulta possibile capire le varie contaminazioni e o relazioni tra musei e videogiochi, quindi come il museo venga re-interpretato agli occhi del gaming.
Infatti l’idea di museo viene continuamente rielaborata da culture e sottoculture che lo ri-adattano in vario modo, rappresentandolo, citandolo, utilizzandolo come set o semplicemente in una chiave semplicemente retorica (si pensi al mondo del cinema); ma per quanto riguarda il videogioco, anch’esso ha utilizzato il museo con le specifità mediali che lo contraddistinguono, come quella di poter dare un’interazione immersiva con ambienti virtuali esplorabili ma sempre basati sulla narrazione, per fare degli esempi basti pensare al classico Indiana Jones and the Fate of Atlantis reso pubblico dalla LucasArts nel 1992, che oltre ad essere un esempio crossmediale (ovvero dal cinema al videogioco), il museo è il centro nevralgico delle attività investigative di Indiana. Il gioco, basato sulla filosofia del “punta e clicca”, si svolge per buona parte all’interno del museo del Barnett College in cui Indiana è docente di archeologia. Il museo viene percepito dall’utente come un luogo spoglio e buio, in cui gli oggetti (principalmente manufatti, sculture di varie dimensioni) non hanno una disposizione museografia ben ragionata e precisa anzi, sono accastati. Anche in Tomb Raider: Angel of Darkness si vede Lara Croft intrufolarsi di nascosto nel Louvre per impossessarsi di documenti riservati della curatrice della sezione archeologica misteriosamente uccisa. Nei corridoi del “Louvre” ricostruito è possibile ammirare Le Nozze di Cana del Veronese, la Nascita di Venere di Sandro Botticelli (erroneamente esposta al Louvre nel gioco, ma in verità essa è sita alla Galleria degli Uffizi di Firenze), l’Immacolata Concezione del Tiepolo (anch’essa non esibita al museo parigino ma al Prado di Madrid), l’Incoronazione di Spine di Tiziano e ovviamente la Gioconda, sopra la quale vi è il condotto dell’aria per uscire dall’edificio. Interessante anche notare come la luce zenitale, tipica della Grand Galerie del Louvre, venga riproposta nel videogame. Quindi, in questi due primi esempi si hanno come protagonisti dei veri e propri “professionisti” come storici dell’arte o archeologi che utilizzano il museo come luogo in cui raccogliere indizi per avventure e ricerche fuori dagli schemi accademici. Il museo è di conseguenza il luogo riservato allo specialista che, andando oltre a quello che viene esposto, può accedere a significati più veri.
Altro tipo di museo che viene riprodotto all’interno dei videogiochi è il museo come strumento di potere; un museo del tutto limitativo, che racconta una verità che rappresenta il contesto narrativo del gioco stesso, come testimonia la saga Bioshock, una serie sviluppata tra il 2007 e il 2013, ad opera dell’International Games.
I musei di Bioshock sono visitati dal giocatore in momenti di decadenza e di abbandono e non in piena attività, tipico elemento che alimenta l’atmosfera horror e l’inquietudine andando così a rappresentare un luogo dispotico e di indottrinamento per ammaestrare le masse.
Esistono, infine, dei casi in cui il videogioco è stato adottato e promosso dall’istituzione museale per altri scopi, come quello di strumento didattico e di marketing. Ed è proprio qui che si collocano i nostri due più grandi esempi: il caso del MANN (Father and Son) e il caso del Victoria and Albert (Secret Seekers).
Gli esempi fino ad ora fatti non sono altro che casi in cui il videogioco diventa uno strumento per trasmettere contenuti educativi connessi al museo in maniera autonoma: la fruizione, l’attività di gioco vera e propria, avviene in contesti interni ed esterni al museo e rappresenta una modalità per avvicinare un pubblico più ampio (l’audience development, un processo rivolto ad ampliare, diversificare i pubblici e migliorare le condizioni di fruizione e in ambito museale la premessa per il coinvolgimento massivo dei visitatori è che il museo debba presentare se stesso non come luogo che il pubblico apprezza per le sue qualità culturali ma anche come strumento che mette a disposizione le proprie risorse per la crescita effettiva della collettività e di conseguenza l’istituzione culturale deve poter far tornare le persone a visitare) che non è facilmente raggiungibile nell’ambito delle strategie di marketing legate alla valorizzazione del patrimonio, prospettive però sempre al centro dell’attenzione delle stesse istituzioni. Quindi il museo riflettendosi nel videogioco e viceversa, specchiano una versione appianata delle loro rispettive nature e della loro complessità.
Lo storytelling, la pulsione collezionistica, la tendenza di approfondire l’esperienza, il ritornare a rivivire le attività già fatte nella precedente visita con altri utenti e l’interattività che deve essere sempre più individualizzata, sono tutte attività riconducibili al museo che tenta in questi tempi recenti di relazionarsi con il videogioco sotto vari punti di vista: includendolo tra gli oggetti degni di essere conservati ed esposti, ma anche utilizzandolo in modo consapevole delle sue capacità narrative e interattive come luogo in cui sperimentare forme del tutto nuove di coinvolgimento.
Il museo, di conseguenza, non deve rinunciare alla complessità e alla vocazione critica che deve mantenere e curare in una contemporaneità che mette in discussione i pressupposti su cui si fonda. Il museo poi, nel mettersi in contatto con il videogioco, sta esplorando una strada che si rivela di grande preziosità sia sul versante della didattica che su quello della progettazione di nuove modalità per comunicare e organizzare nuovi contenuti.
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